Ho lavato le mie scarpe, di ritorno dal viaggio.

Ci sono viaggi che sono solo belle immagini viste in rapido movimento, come dal finestrino del treno. Altri che ti rimangono dentro, ti si attaccano come la sabbia fine del deserto, o la terra rossa dell’Africa. Ho lavato le mie scarpe di ritorno dall’Africa, un rivolo rosso arancione correva verso lo scarico, ho messo il tappo, guardavo l’acqua rossastra con la netta sensazione che insieme alla terra se ne andasse una parte di me.

Già. Torni da certe esperienze con una diversa consapevolezza, dal valore delle piccole cose, all’idea che ti è stato chiesto tanto per ricevere molto di più. Questo dicono tutti e questo è ciò che capita a molti, a me è capitato per la seconda volta. Come allora anche stavolta l’Africa mi si è appiccicata addosso. Come allora anche stavolta uno dei primi giorni mi sono chiesta cosa ci facessi lì, in mezzo a malaria, povertà e sofferenza. Però stavolta ero avvantaggiata, sapevo già che una risposta mi sarebbe arrivata, dalla gente, dai luoghi, dai bambini e da me stessa: tutto mi avrebbe ripagata, dello sforzo di adattamento e delle mie paure.

Bene . Quindi, cosa mi è rimasto?

Un boato, innanzitutto, arrivati al centro per disabili “Bethlehem”. Le voci sottili dei bambini, che cantavano tutti in cerchio per darci il benvenuto, sono state come un boato dentro al nostro petto, che ci ha colti impreparati. “Ma aspettano noi?”. “ E ora che facciamo?” Facciamo come loro, rispondiamo coi sorrisi ai sorrisi, con la voce alla voce, e siccome noi non conosciamo lo swahili e loro l’italiano le parole non-sense sono la perfetta strategia. Rosaria ha quello che si chiama un “lampo di genio”, battendo le mani intona un simpatico “Aranzanzan uri uri …aranzanzan” che mette noi e loro in comunicazione perfetta. Hanno imparato in fretta parole e gesti, meglio di quanto noi non capissimo loro e questo mi fa ancora commuovere e allo stesso tempo sorridere, perché quelli sono tutti bambini con disabilità cognitive e mentali e quindi comunicative e relazionali. Faticosi i giorni passati al centro a far fare loro qualche attività seduti per terra e coi pochi mezzi che c’eravamo portati in valigia, in attesa che arrivasse il container coi giochi. Avevamo solo qualche quaderno, colori, pennelli, che ci siamo fatti bastare, perché poi il container è arrivato solo gli ultimi giorni. Ecco. Anche in questa minuscola cosa sta la consapevolezza a cui accennavo: oggi quei “pochi mezzi” non mi sembrano poi tali, anzi, rispetto a quegli sguardi curiosi, avidi, alle manine operose di quei bambini che quei mezzi non li avevano probabilmente mai usati o di rado, e per loro rappresentavano qualcosa di bellissimo e ricchissimo. Scontato? No, no, per niente, va provato da vicino, perchè sia compreso nel profondo.

E allora ti viene da piangere, quando una ragazzina tetraplegica fa il giro del mondo con le braccia per riuscire a lasciare sul foglio un segno col pennarello a cui ha tolto il tappo con un altro giro del mondo delle braccia e poi lo offre ai tuoi occhi perché tu le dica “Ok, ce l’hai fatta”. E il giorno dopo allora osi qualcosa di più complicato, l’aiuti a tagliare delle forme in un pezzo di carta, lei lo piega con due o tre giri del mondo delle braccia e poi riesce a tenerlo stretto stretto, fermo, e tu con le forbici togli piccoli triangolini di carta e … voilà, la magia, la felicità, quasi quasi mentre le sorrido vivacemente mi rimetto a piangere dietro gli occhiali.

E Caravaggio? Come si fa a dimenticare Caravaggio, il nome che io ho dato a una bambina perché dapprima la pensavo un ragazzino, per diversi motivi. E Caravaggio è rimasto il suo nome, perché firmava gli scarabocchi suoi e dei compagni con una pennellata a virgola all’insù con la classe del grande pittore, come se l’avesse visto fare, chissà dove.

Da ogni dove invece arrivavano le mani dei bambini piccoli e grandi, che chiedevano un disegno, un colore, un foglio di carta, che ti sedevano sulle gambe, in cerca di un contatto: erano settanta, sembravano trecento. Ad un certo punto, a un semplice richiamo nostro o dei bambini stessi arrivava Pablì, sempre impegnato in qualche manutenzione lì intorno, compariva all’improvviso, e come il pifferaio magico, si trascinava appresso tutti, in colonna, in cerchio, tutti a imitare i suoi gesti, a ridere delle sue strane parole, a ripeterle a pappagallo. Arrivava la felicità insomma. E come al centro Bethelehm così anche per le strade del paese i bambini seguivano il pifferaio magico, impossibile resistere alla sua energia; come i topini della fiaba saltavano fuori da tutti gli angoli e marciavano dietro a lui per le strade talvolta polverose, altre volte fangose, di Ifakara.

Ifakara, è il nome della cittadina, un abitato con un paio di strade asfaltate che portavano dalla periferia al centro, case ai bordi dell’asfalto, dietro a queste subito la vegetazione o pochi campi coltivati, per il resto le laterali erano stradine sterrate, polverose, piene di buche che si riempivano d’acqua ad ogni pioggia. Raggiungere Ifakara da qui non è uno scherzo, dopo un paio di voli ti aspetta un giorno intero di viaggio tra savana e foresta pluviale, e buche. Ma se si è fortunati, come noi, intravedi tra gli arbusti giallo-verdi del parco Mikumi (che la strada attraversa) zebre, giraffe, impala ed elefanti.

Il centro di Bethlehem di Don Salutaris, per tutti Baba, padre, dista circa sette chilometri dall’ospedale Saint Francis, in centro a Ifakara; qui lavoravano i nostri bravissimi medici, capofila il mitico dott. Ottavio, detto Otto, un “Ottorino” con doppia T … nomen omen * , aggiungerei che i dottori di nome Ottavio erano due e guarda caso entrambi otorini !! Fatto sta che in quei giorni frenetici tutti coloro, bisognosi, che non avevano i mezzi economici potevano rivolgersi all’ospedale e riceverne gratis le cure e sono arrivati in tanti, a centinaia. L’ospedale è grande e bello a vedersi. Ad una prima occhiata sembra ci sia tutto, ma in realtà mancano un sacco di cose, in senso lato. Ok, va bene per le lenzuola e i vivaci abiti colorati dei degenti stesi sui fili al sole tra un padiglione e l’altro, anche se “fa” strano per noi, e ci sta anche che i parenti venuti da lontano pernottino fuori dall’ospedale, ai margini della strada, perché devono portare il pranzo ai loro malati, l’ospedale non provvede a questo, va bene, siamo in un altro mondo le cose vanno così, ok, purchè vadano, si fa con quel che si ha. Ma ci sono cose che non possono mancare e le corsie dei degenti che in tutti gli ospedali sono naturalmente tristi, qui lo erano di più. Non so descriverlo diversamente, io non ci ho lavorato, ma a me sembrava così. So però che Fabio, i nostri medici e i nostri tecnici hanno lasciato tanto di buono in quelle corsie in quei giorni.

Dal centro all’ospedale e viceversa ci arrivavamo a bordo di un bajaj, sono Ape car a tre ruote, spericolatissimi. Ai lati della strada sfilavano arrangiate bancarelle con le merci e le piccole abitazioni : capanne col tetto di paglia o casette col tetto di lamiera, intorno ad ognuna qualche albero di banane, qualche metro quadrato di mais e di riso. Un’agricoltura di sussistenza, che garantisce di sfamare la famiglia, poi per arrotondare capita spesso che davanti a casa, sulla strada, verso sera, compaiano i bracieri col mais arrostito, uno street food del luogo insomma.

Col Mais si fa anche una specie di polenta bianca, la shima. Riso innanzitutto, poi banane, patate, fagioli e uova, sono l’alimentazione di quei luoghi e ancora verdura lessa, papaja, cocomero e magari melanzane, platano e pollo; polli e galline in effetti razzolano ovunque, anche in chiesa il gallo scandiva il tempo che passava. Ma per tanti il pasto è costituito solo da polenta bianca o riso e fagioli, magari qualche banana, punto.

Noi mangiavamo bene al centro, c’erano sempre pollo e pesce, oltre all’immancabile riso e alla frutta, tutti i santi giorni però, e allora vuoi non andare un paio di volte al ristorante? Così, tanto per cambiare. Già. Menù : pollo e patate e niente posate e bicchieri. E così giù a ridere come matti, abbiamo mangiato il solito pollo con le mani accompagnandolo con una bella birra fresca, in bottiglia.

Sì, non son certo mancati le risate e i momenti spensierati, come quando siamo saliti in groppa alle moto per andare a visitare il villaggio dei Masai. Fuori città, oltre i ponti che scavalcano il fiume che si spalma per chilometri rendendo la campagna acquitrinosa, c’è un villaggio Masai, lo si può raggiungere solo uscendo dalle strade, a piedi o in moto, se il livello dell’acqua te lo permette. I nostri piloti erano bravi sulle loro due ruote, e sfidavano le enormi e fangose pozzanghere, ma più di uno di noi è dovuto scendere dalla sella ed è finito nell’acqua scura fin sopra alle ginocchia. Adrenalina e risate nel tentativo di non finire a mollo, ma il mio pilota si chiamava Lucky, che poteva mai succedermi! E bravo Fortunato, ha spinto oltre il massimo il motore, quando siamo rimasti intrappolati nella pozza fangosa, e ne sono uscita solo con qualche schizzo tra i capelli. Al villaggio ci ha condotti Said, uno del posto che conosce i Masai. Ci aspettavano, li aveva avvisati per telefono e ci hanno presentato le loro piccole creazioni artigianali, anche loro devono sbarcare il lunario. A chi mi ha chiesto : “ Hanno il cellulare , ma allora vivono davvero così isolati, in capanne, allevando pecore e capre?” Io ho visto il giaciglio su cui dormivano, sono entrata nelle capanne di paglia, fango e sterco in cui abitavano, ho visto la macina di pietra per il mais, ho visto le greggi condotte dai ragazzini intorno al villaggio e rispondo così: “ Comunque più vero del contrario”. In effetti la globalizzazione ha portato in tutto il mondo, nella savana, come nella foresta i propri mezzi di comunicazione; cellulari e parabole abbondano nei paesi poveri del sud del mondo, anch’essi consumatori dei prodotti del nord, finchè questo serve all’economia di mercato mondiale per essere prosperosa. Eppure queste parabole e i cellulari ad un primo sguardo stridono con l’estrema povertà dei fruitori, perché? Lascio ad ognuno di noi la propria risposta: io ho visto un’ambulanza l’ultimo giorno all’ospedale col fango fino sopra il tettuccio, era stata chiamata dal villaggio Masai per salvare la vita ad un bambino appena nato. Non so se l’abbiano salvata quella vita, se la telefonata dal cellulare e l’ambulanza siano servite. Anni fa il quesito non era neppure formulabile. Quanto l’Africa cambi insieme ai cambiamenti nel mondo? Impossibile non domandarselo, in tante occasioni.

Quel fatidico giorno in cui in eravamo in visita ad uno dei dormitori, puzzolente e sporco da cima a fondo, mi son chiesta ancora una volta : ”Cosa sono venuta a fare qui? Non conto niente di niente. Come si aggiustano le cose?” Be’, non si aggiustano. Non si tratta di aggiustare qualcosa di rotto. Lì allora sarebbe TUTTO rotto. No, non si tratta di questo, si tratta di dare una mano a chi, da africano, come Baba o come istituzione prova a fare qualcosa, da FUORI niente si cambia, niente si aggiusta. Tiriamo su le maniche e pieghiamo le ginocchia, imbracciamo scope e pennelli e sotto la guida esperta di Oreste, Vittorio, Marta e Sara, la “famiglia” di Anna, alla fine uno dei dormitori è degno di essere chiamato con questo nome.

L’associazione “Gocce per l’Africa” fa questo ogni anno, più volte, dà una mano. Occorre tanto impegno e sacrificio. Anna, la presidente, ci perdeva il sonno, Fabio, suo marito, in ospedale discuteva continuamente col responsabile di turno per riuscire ad aiutare nella maniera giusta. Non è facile. E’ Anna che ci ha portato in giro per Ifakara tra un orfanotrofio e un altro, e insieme a Don Salutaris siamo anche andati in visita al lebbrosario, Baba, è uno dei responsabili della gestione. Quanta sofferenza! Ma anche quanta gratitudine per le nostre visite! Con Anna siamo andati fino a Mahenge, nella foresta, in montagna, in visita ad un altro orfanotrofio e a una scuola secondaria femminile, privata. Lo sappiamo tutti: sono la scuola, l’istruzione, le competenze la chiave per progredire, per migliorare, per creare opportunità e alternative, queste mancanze sono il buco nero dei paesi come l’Africa.

Indimenticabile il viaggio per Mahenge, superato il fiume dove i pescatori stendono le loro reti in verticale, in un’acqua ricca di canneti in cui si nascondono pericolosi coccodrilli, passi attraverso la campagna acquitrinosa delle risaie, incontri le greggi dei Masai, i loro buoi con le corna lunghissime e poi lasci la strada asfaltata per una fangosa che si inerpica nella foresta come un serpente vermiglio. Due occhi non mi bastavano. Il rosso della terra, il verde smeraldo della vegetazione, l’indaco del cielo, i piccoli villaggi quasi irreali, le donne nei loro abiti colorati e con i loro immensi carichi sulla testa, donne-pianeta circondate da bimbi satelliti. L’Africa, i suoi paesaggi e i suoi tramonti non possono lasciarti indifferente. Impossibile dimenticarne la bellezza, impossibile dimenticare quel viaggio, tanto scomodo quanto fantastico.

L’Africa e i suoi abitanti non ti possono lasciare indifferente, in tutti i sensi, dall’ andamento lento sempre, in ogni occasione, al passo flemmatico di chi cammina ai margini della strada in mezzo alla campagna, o lungo i binari del treno, tanto che ti chiedi dove vada; e di contro il ritmo contagioso dei canti durante la messa domenicale, dei balli e dei movimenti aggraziati della signora anziana e corpulenta che va all’offertorio al ritmo dei tamburi e dei suoni vocali simili a ululati che le donne lanciano in aria come petardi nel mezzo della messa o della festa. E poi ti incanta quello che sanno stivare sui loro pochi mezzi, dagli enormi fasci di legna o di banane sulla bicicletta, alla moto caricata per traverso su un’altra moto, da non credere! Ma sembra che tutto sia la norma, e sia la norma vivere alla giornata. “Pole, pole” che tradotto dallo swahili significa “Piano, piano”, è una delle prime parole che impari dopo “Karibuni”, benvenuti e “Asante”, grazie. Le persone camminano senza fretta, fai fatica a stargli dietro, nel senso che devi tirare il freno sennò gli stai sempre davanti. Le persone parlano come sottovoce, vivono ogni istante come tale. Se non rallenti crei “l’incidente”. “Pole pole” non significa perdere tempo, ma dar spazio al tempo. Paradossalmente se la calma è una ricchezza, allora gli abitanti della Tanzania che ho conosciuto io, quella del piccolo centro, sono ricchissimi, non si perdono nulla di ciò che vivono; nella nostra frenesia quotidiana noi spesso perdiamo il senso della vita come qualcosa che non va sprecato. Ma è più forte di noi, allora penso che non siamo noi a scegliere, chi, che cosa allora? Il luogo in cui nasciamo? Il sangue che ci scorre nelle vene? La nostra buona stella? Certo non stiamo tutti sotto lo stesso cielo.

La grande bellezza dell’Africa contrasta ai nostri occhi stranieri con i grandi problemi dell’Africa: in un momento di scoramento ho scritto ad Anna, le dicevo che lei è “sì” una goccia, e come la goccia che corrode la roccia negli anni ha lasciato un segno, invece noialtri eravamo come fiocchi di neve sotto il caldo sole dell’Africa, c’eravamo finchè c’eravamo e poi basta. Anna mi diceva che è difficile spiegare cosa ti lascia l’Africa, sempre fonte di grandi emozioni. Io ringrazio lei e Fabio per l’esperienza che ho vissuto e li ammiro per la loro tenacia ed impegno. Ringrazio i miei compagni, di viaggio, compagni in tutti i sensi, ero “nuova” in un gruppo affiatato, rodato dal cammino a Santiago, ma è stato come essere con dei vecchi amici, c’era sempre un aiuto in caso di bisogno. Il viaggio, il gruppo ti aiutano sempre a capire chi sei.

Ho lavato le scarpe di ritorno dal viaggio in Africa, ho guardato per un po’ quell’acqua rossa vermiglio, poi ho tolto il tappo e ho lasciato scorrere via il rivolo, non so se fosse un addio o un arrivederci. So che l’Africa lascia sempre un segno profondo in me, anche se ci resto un tempo brevissimo, chissà se Lei ha sentito che l’ho sfiorata.

*Note: nomen omen : dal latino “ il nome è un destino”.

(Annamaria, maggio giugno 2025)

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