Anna, ostetrica al Lugala Lutheran Hospital, Lugala

Sono passati quasi sei mesi dal mio ritorno ,eppure le immagini dell’Africa mi ritornano spesso attraverso i pensieri, i ricordi e addirittura i sogni.

Pochi giorni fa ho chiamato al telefono Lisa, mia compagna di viaggio, per salutarla e sentendo la sua voce ho provato una profonda nostalgia di questa esperienza condivisa insieme.

Una prima parola per parlare di quello che per me è stato l’ Africa è proprio “condivisone”, intesa come dividere con, spartire esperienze giornaliere di normalità, entusiasmo, difficoltà, dolore, fatica e scoperta, nella moltitudine di opposti e contraddizioni, con le persone che mi hanno accompagnato e che ho incontrato in tre mesi d’Africa.

L’esperienza di condividere, quindi, è qualcosa che posso dire essere stata centrale per descrivere questo viaggio e forse alla fine ne ha  rappresentato il suo significato stesso.

L’arrivo è stato a Dar Es Salaam.

Una città in cui le contraddizioni sociali sono immediatamente evidenti. Strade trafficate, quartieri di sfarzosa ricchezza gestiti da grandi compagnie multinazionali impongono i loro grattacieli sul paesaggio,viceversa le zone più periferiche sono caratterizzate da baracche e da miseria indotta.

E’ forte la sensazione di disequilibrio sociale ed economico che provo nel camminare per queste strade e non nascondo la mia rabbia per osservare come nel nome del progresso e dello sviluppo 

economico si celi l’unica vera verità : quella dell’accumulazione di ricchezza da parte di queste stesse compagnie e dello sfruttamento di questa terra  che di certo poco va a giovare alla popolazione locale.

Mi vengono in mente le parole di Serge Latouche :” Gli africani non hanno mai pensato di essere poveri fino quando qualcuno non è andato a dirglielo,non hanno mai pensato a loro stessi come a dei sottosviluppati fino a quando gli europei colonialisti non glielo hanno fatto credere (..). La povertà in senso economico è un’idea occidentale”.

E’ inutile forse, a questo punto, chiedersi con quale diritto possa essere stata e sia  imposta la supremazia di un’idea culturale su di un’altra, distruggendo quest’ ultima senza rispetto e un minimo di coscienza.

Ciò nonostante, uscite da Dar Es Salaam ,il paesaggio comincia a cambiare.

La prima tappa è Ifakara per poi ripartire per Lugala, dove con Lisa rimarremo per i tre mesi successivi per lavorare come ostetriche al “Lugala Lutheran Hospital”.

 Fuori dal finestrino di un pullman, i grattacieli di Dar lasciano spazio a distese interminabili di lande verdi e secche baciate dalla violenza azzurra del cielo soprastante.

La natura della Tanzania è qualcosa che mi ha travolto e che si è disegnata dentro senza i suoi apparenti confini ,come se i limiti degli spazi non potessero essere mai definiti.

Questa natura è stata un’altra compagnia di viaggio quotidiana, un’amica a cui ho potuto confidare i miei pensieri e che mi ha regalato in cambio la possibilità di fermarsi ad ascoltare.

L’ambiente non è controllato dall’essere umano che non ne definisce contorni o ne limita la sua estensione, come spesso ho la percezione nel vivere in Italia, ma è lei stessa a modellare l’uomo con i suoi ritmi e ne fa dell’uomo stesso una sua parte inscindibile.

I viaggi sul “dala dala” (piccoli mezzi di trasporto),sempre di molte ore per le lunghe distanze che separano i diversi centri, sono una scoperta di volti, colori, suoni e odori. Ci si ritrova schiacciati tra corpi di uomini e donne con “kitenghe” dai colori accesi  avvolti sul capo, posti intorno ad abbondanti seni o a fianchi larghi o volti a mantenere il contatto tra neonati e bambini con le schiene delle proprie madri.                                                                                             

Sacchi di riso, bagagli, valigie, borse, cesti colmi e polli legati in scatole di cartone riducono ulteriormente lo spazio intorno, mentre il corpo sobbalza a causa della velocità senza limiti del pullman su strade di terra rossa distrutte e le orecchie rimbombano al suono di musica africana a  tutto volume.
Fuori,alla vista della terra si aggiunge la presenza di villaggi di case di fango, di legno o  di bambù e  la presenza di venditori ambulanti o donne che  camminano con eleganza mentre trasportano pesi enormi coricati sul capo o assalgono il pullman per vendere pomodori rossi, banane, biscotti o bibite tutte made from Coca cola company.

A Ifakara, ci accoglie Duurt e altri due ragazzi Martina e Michele. Ci aiutano nell’orientarci e ci raccontano le loro esperienze.

Duurt è un punto di riferimento ad Ifakara per tutti i “volontari” che tramite l’associazione Gocce decidono di partire . Per qualsiasi necessità di informazione, problematica o dubbio ci siamo rivolti sempre a lui. Sicuramente la sua disponibilità e pazienza necessita di un ringraziamento.

Intanto il viaggio continua, verso Lugala. Qui ad accoglierci invece è stato il dottor Peter, direttore del Lugala Hospital, che ci ha dato la possibilità di lavorare nell’ospedale insieme al personale tanzaniano. Resteremo a Lugala per i successivi  tre mesi ,alloggiando in una casa vicino all’ospedale e vivendo insieme ad altri volontari europei.

Non potendo descrivere in poche parole tre mesi di vita, riporto solo qualche immagine  del mondo della nascita ,della maternità e della realtà di Lugala che ho potuto conoscere.

L’accoglienza in ospedale ci è stata offerta fin dal primo giorno e subito siamo state inserite nel reparto di maternità alla pari con il resto del personale.

Si lavorava insieme ,cercando di scambiarsi saperi e conoscenze.  Non dico che sia sempre stato facile perchè inevitabilmente le differenze lavorative erano presenti, ma il tentativo di scambio reciproco c’è sempre stato. E di conseguenze le differenze erano accompagnate anche da molte somiglianze. La sensazione di collaborazione e di rispetto tra i lavoratori non è mai mancata e questo sicuramente è un insegnamento che mi sono portata con me al mio ritorno.

Il reparto di maternità, nel quale abbiamo lavorato, comprende il labour ward o sala parto, l’antenatal ward ovvero una grande stanza nella quale le donne in gravidanza attendono il momento del parto, altre stanze per il post partum ed infine una per le mamme con i bambini pretermine. In quest’ultima un’etichetta di cartoncino, sopra la porta di legno, reca la scritta “Kangaroo Therapy”. I bambini nati prematuri, di qualsiasi epoca gestazionale, sono stati molti e la loro unica fonte di sopravvivenza era il contatto pelle a pelle con il corpo della loro madre. Questa semplice pratica,detta appunta Kangaroo Terapia, può essere fondamentale per garantire una loro possibilità di vita in assenza di disponibilità di culle termiche o della neonatologia.                                    Diversi sono i ricordi di corpi piccoli, fragili e non ancora pienamente formati delle dimensioni di poco più di due mani messe insieme. A colpire, in modo opposto, era la grandezza dei loro occhi dalla quale mi porto dentro  immagini di  lotta viva per la vita o quelle del velo della stanchezza che precede una morte infinitamente troppo giovane.

Le donne rimangono in gravidanza in giovane età e hanno nel corso della vita molti figli e non era raro vedere donne che dovevano partorire assistite da figlie adolescenti, magari a loro volte incinte

Molte di loro, venendo spesso da villaggi lontani diversi chilometri dall’ospedale, preferivano anticipare il viaggio prima della comparsa delle doglie. 

Attendevano  sedute su una panchina di legno fuori dalla loro stanza, affacciata in un cortile all’aperto sotto sprazzi di cielo d’Africa.

Il tempo della gravidanza era scandito dal tempo della natura con il suo ritmo profondamente lento che modellava l’attesa della nascita ,privandola della fretta e della corsa.

Le pance intanto le vedevo crescere, le toccavo per sentirne dentro i bambini, che ognuno con il suo tempo era in grado di decidere il momento giusto per nascere.

Quello del reparto di maternità è un mondo pertanto di donne, solo di donne.

Gli uomini sono assenti e non partecipano al momento della nascita probabilmente per motivi culturali e di genere.  Ciò che invece stupisce è la fortissima solidarietà che le donne creano fra di loro. Si aiutano a vicenda durante la gravidanza o dopo la nascita del bambino, condividono il pasto insieme, creano gruppi di convivialità. La rete di legami sociali che si crea fra di loro è solida e duratura anche dopo il parto. In questo caso è immediato il confronto con le donne italiane,le quali spesso purtroppo si trovano sole, soprattutto durante il periodo del puerperio.

Il gruppo è sinonimo di forza ,collaborazione, di supporto reciproco, amicizia e di valorizzazione personale. E’ quindi fondamentale per la salute emotiva di una donna e del suo bambino.

Purtroppo la maternità in Africa è anche sinonimo di fatica, di dolore, di complicanze e di morte.

L’ambiente ,quella stessa natura che ho decritto come amica, distrugge e porta nei corpi una sofferenza che ho potuto solo guardare, senza realmente comprendere o accettare.

La malnutrizione cronica, le scarse condizioni igienico-sanitarie o la diffusione di moltissime infezioni (il virus dell’HIV colpisce con una percentuale altissima) portano a volte le persone ai limiti possibili della sopravvivenza.  Le condizioni sociali sono pertanto  a volte drammatiche e determinano lo stato di salute delle madri e dei loro figli.

La morte colpisce e colpisce troppo frequentemente,soprattutto i bambini.

Ricordo corpi caldi senza vita o riempiti dal silenzio freddo di questa morte che non lascia parole, che non trova una collocazione e alla quale non riesco a trovare un senso.

La vita e la morte si mescolano troppo spesso.  Non c’è più confine. Di fronte a ciò,  rimango sconvolta dalla forza fisica e psichica delle donne e degli stessi bambini che davanti a questo confine non smettono di lottare o di sperare .

Questa forza mi arriva quotidianamente e mi rimane dentro, mi segna, mi ristruttura, mi ridefinisce, scoglie egoismi, crea solidarietà e unione.

Qual è il ruolo della donna in questo luogo? Ho cercato di tentare di rispondere a questa domanda, ma non ho trovato una reale risposta.

Da una visione occidentale, ho potuto osservare, per esempio nell’assistenza alla nascita,  la disuguaglianza di genere che si veniva a creare da un rapporto impari tra donna che partoriva e chi la assisteva. Spesso le donne non avevano la libertà di scegliere (per esempio su come gestire il loro travaglio) e veniva esercitato loro  una forma di controllo sul corpo tramite l’espressione di comandi e da ordini imposti. Questa forma di controllo è qualcosa che purtroppo ho conosciuto anche negli ospedali italiani a causa dell’ancor presente modello  patriarcale e maschilista che tende a considerare il corpo della donna come qualcosa di fine a se stesso sul quale esercitare una forma di potere e svincolato dalla sua personalità ed individualità globale.

 Eppure la donna in Tanzania ha un ruolo fondamentale nel nucleo famigliare: si prende cura della casa, dei figli e dell’economia domestica, per esempio lavorando la terra nei campi o vendendo al mercato ciò che è stato raccolto.

La percezione quindi è duplice: da una parte la sensazione di una profonda disuguaglianza di genere e dall’altro quello della donna come perno fondante per la famiglia e la stessa società.

Mi colpiscono le parole di Aminata Traore, ex-ministro maliano della cultura e del turismo:

 “Abbordare il problema della donna in Africa in una prospettiva di “emancipazione” è estraneo alle donne stesse e comporta il pericoloso rischio di sregolate l’intera società africana”.

Questa affermazione mi fa pensare che forse la realtà è molto più complessa di quella che appare e che creare un giudizio solo sulla base di un paragone con il modello europeo di donna autonoma, libera ed emancipata sia un errore che non tiene in considerazione gli aspetti culturali e tradizionali.

Altre immagini di Lugala.

Nei miei ricordi i piedi nudi si sporcano di sabbia rossastra e corrono in una strada circondata da erba alta, da fiori bianchi, da campi coltivati e non, da case di bambù e fango, da cani stanchi a terra, da donne piegate a mescolare cibi dentro terrine o a macinare sementi dentro cesti di legno.

Alcuni uomini vendono magliette o kanga, altri aggiustano biciclette, anziani sono seduti su sedie di plastica nel cortile di casa, altri ancora vendono arance, pomodori, banane, patate e papaya o cuciono con macchine da cucire a pedale, tutte finte Singer di provenienza cinese, tessuti e vestiti. 

C’e chi semplicemente è seduto e aspetta il trascorrere della giornata chiacchierando con i vicini o i passanti . Stare seduti non è significato di nullafacenza,ma è parte integrante della considerazione della vita di queste persone.

 “Habari – Habari asubhui, Mambo- Mambo poa, Jambo-Jambo ” sono alcuni dei saluti che mi giungono da parte di chiunque incontro e cerco a mia volta di rispondere cercando di indovinare il corretto saluto in un swahili stentato.                                                                                                                        Il saluto è un altro elemento fondante che occupa le persone  a volte interi minuti prima di iniziare una  conversazione. E’ un rito legato a questa cultura e ha pertanto una sua importanza nel regolare i rapporti tra le persone anche di età diversa ,stabilendone così un ruolo di rispetto sociale ben definito.

Poi ci sono le immagini dei bambini.

Ricordi di bambini nudi che giocano in riva ad un fiume di acqua sporca, in un’immaginata lotta i loro corpi si competono a vicenda e si mettono alla prova. 
Bambini che corrono sulle strade, i più grandi trasportano i più piccoli sulle loro spalle, alcuni vestiti con divise sporche di sabbia si incamminano in gruppo verso scuola. 
“Good morning teacher “sento urlare da lontano con eco di risate un po’ sorprese, un po’ di sfida o a volte un po’ spaventate. 
Al gioco, i cui giocattoli sono bastoni, alberi, cumuli di foglie per accendere il fuoco, terra, palloni fatti di stracci e sacchetti di plastica, sassi, insetti, fango e rifiuti, si associa il lavoro .
Trasportano secchi di acqua presa dal pozzo, aiutano i genitori a spazzare il cortile di sabbia, lavorano la terra, pascolano pecore o buoi. 
Corpi di bambini fieri e snelli appartenenti a tribù di origine guerriera, quella dei sukuma. 
Tutti i loro occhi, della profondità nera della terra bagnata, parlano di un mondo fatto di quell’innocenza dell’infanzia e allo stesso tempo di quella consapevolezza razionale dell’età adulta. 

L’Africa è stata quindi insieme di immagini,di esperienze, di conoscenza e di messa in discussione personale. Non ho conosciuto realmente un’altra cultura (tre mesi sono troppo pochi per capire realmente), ma ho potuto rivedere la mia dall’esterno e da un punto di vista altro.

L’Africa è anche contraddizione: è l’energia della vita e morte palpabile, è natura intatta che nutre e che divora allo stesso tempo, è forza e sfinimento, è donna e suo annullamento, è ricchezza sociale e povertà estrema, è solidarietà e solitudine, è gioco d’infanzia e suo lavoro, è il rispetto di ruoli sociali e contemporaneamente gerarchia e potere, è speranza e assenza di prospettiva, è sogno di cambiamento e impossibilità di sognare.

E molto altro.

Ringrazio tutte le persone che hanno permesso questo viaggio per come è stato:

Anna  Fin, Lisa, Giovanni e tutti i compagni di casa a Lugala in particolare Jorge e Fabio, Duurt, Peter e tutto il personale ospedaliero che mi ha dato la possibilità di condividere insieme il lavoro e vivere questa esperienza.

Anna Paccagnella (giugno-settembre 2016)

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