Beatrice, infermiera al St Francis Hospital, Ifakara


“Nitarudi kwa kweli”

Ed eccomi qui finalmente  a provare a raccontare questa mia incredibile esperienza in Tanzania con l’associazione Gocce.

Dico provare perché, come giá altri volontari han scritto prima di me, è difficilissimo spiegare cosa sia voluto dire vivere un pezzetto di vita lì, la condivisione della quotidianità con un popolo incredibile, cosa vuol dire sentirne la mancanza e avere quel mal d’Africa che tutti mi dicevano sarebbe venuto ma non avevo idea che sarebbe stato così forte!!

Mi sono laureata in infermieristica a novembre 2013 e avendo sempre avuto il desiderio di fare un’esperienza di volontariato in Africa mi sono imbattuta nell’associazione Gocce che mi ha accolto subito come un nuovo membro in famiglia.

Per farla breve, il tempo di fare tutti i vaccini e le burocrazie necessarie e a marzo io e la mia amica (e anche compagna di università) Giada eravamo là.

Arrivate a Ifakara, tempo di abituarci al caldo e a schiacciare zanzare a tempo di record, nel giro di pochi giorni eravamo già a lavorare in ospedale, io in pronto soccorso (detto in realtà theater 3 in quanto via di mezzo tra un pronto soccorso e una mini sala operatoria per piccoli interventi) la mia amica in sala. 

Il Saint Francis è un ospedale grande e soprattutto essendo l’unico ospedale di riferimento per un’area molto vasta è sempre pienissimo di pazienti, con parenti, familiari e amici annessi. Nonostante la grande confusione iniziale, tra la lingua (non proprio immediata da imparare), il gran numero di pazienti da gestire e le nuove procedure da imparare è incredibile come io non mi sia mai sentita sola o fuori luogo. C’è sempre stato qualche dottore, specializzando, studente o infermiere disposto a tradurre per me, a insegnarmi, ad aggiornarmi su cosa stava succedendo. Una delle cose più belle che infatti ho intuito all’inizio, e si è confermata sempre più andando avanti, è questo bellissimo senso di accoglienza e di aiuto reciproco che non viene mai a mancare, chiunque tu sia, dall’ultimo arrivato a chi è già lì da molto più tempo, non ti si nega mai un “Karibu” (benvenuto) e una mano tesa in aiuto. E poi la semplicità di vita, quella capacità di diventare amici di schianto, senza pretese, senza troppi “se” o “ma”.   Insomma, nel giro di poco tempo eravamo già ambientate e immerse nel ritmo di vita africana. Con queste premesse il lavoro era per me un’occasione ogni giorno di riscoprire da quale bellezza sarei stata colpita in quella mattinata, o quale, grande o piccola soddisfazione quella giornata  avesse avuto in serbo per me. Certo le fatiche non mancavano, non è un mondo perfetto né dotato di metodi perfetti. Spesso si presentava la frustrazione di non riuscire a farsi capire, di non poter risolvere in fretta un problema di per sé semplice, di non riuscire a risolvere problemi in nessun modo, né in fretta ne pian piano. Però le difficoltà erano l’occasione per ricordarsi (come mi aveva detto saggiamente Anna prima che io partissi) che noi eravamo ospiti in casa d’altri, di un mondo non nostro e che non potevamo pensare di cambiare né tanto meno salvare. Per cui ti rimboccavi le maniche e facevi del tuo meglio con quello che c’era, accettando quella fatica come modo per crescere, sia umanamente che professionalmente. Così sono cresciuta davvero tanto, imparando ogni giorno a fare tesoro delle piccole cose che spesso, si danno per scontato, o di gioire anche di risultati di per sé piccoli: dal sorriso di un bambino, arrivato dopo 5 giorni di visite perchè ha finalmente capito che sei lì per aiutarlo e non per fargli male, dal paziente con la tracheostomia che vedendoti stanca ti offre la sua colazione, dall’accoglienza ogni mattina dei tuoi colleghi contenti solo per il fatto che ci sei e sei lì per aiutare, dal vedere un tuo collega tanzano che pur di aiutare un suo paziente fa’ gli straordinari e non gli dice di tornare il giorno dopo, agli amici che non si stancano mai di offrirti una soda e così via, potrei continuare all’infinito!

La mattina non mi sono mai svegliata così contenta di andare a lavorare come in quei mesi. E pensare che quando sono partita, avendo pianificato un periodo di 6 mesi pensavo “dai comunque se vedo che mi trovo male rientro prima”, e mi sono ritrovata invece alla fine di quei mesi a trovare un modo per prolungarli ancora un pò!!

Poi c’è la gente che conosci (e non) che ti saluta sempre per strada, i bambini che ti corrono incontro per salutarti (ma soprattutto sperando che tu abbia qualche caramella per loro), le cuoche della parrocchia che erano come mamme, sempre pronte a fare due chiacchere, sempre preoccupate che ci piacesse quel che cucinavano e che mangiassimo abbastanza, e i preti che ci ospitavano, come dei padri che, ognuno a suo modo, si prendevano cura di noi.

E poi ancora tornare a casa la sera al buio e vedere che a darti la buonanotte c’è la Via Lattea, le birre con gli amici prese in ogni bar possibile della città, le cene all’italiana improvvisate con ciò che c’era pur di riassaporare un pochino di Italia, le gite al fiume la domenica, la messa dove io ero l’unica bianca e all’inizio tutti si giravano a guardarmi ma poi pian piano sono stata accettata senza troppi bisbiglii al mio ingresso in Chiesa, le serate a vedere i mondiali, tifando ogni sera una squadra diversa perchè tanto con tutti i volontari in giro in città c’era sempre la squadra di qualcuno che giocava, le infinite amicizie nate dal nulla, come se ci si conoscesse da anni, con una forza più grande spesso di quella degli amici di infanzia, e tutti quei “ma perchè te ne vai Bitriss (storpiatura di Beatrice hahaha), resta!” e a me che si stringeva il cuore, e insomma anche qui potrei continuare per mille pagine. La gente poi si stupisce se quando mi chiedono “ma cosa ti manca di laggiù?” io non so rispondere!

Adesso ho trovato lavoro in un ospedale a Londra e tra poco inizierò una nuova avventura. Mi commuovo però se penso che sono stati loro, i miei colleghi africani a insegnarmi quella praticità e colpo d’occhio clinico che mi ha permesso di trovare quel lavoro, mentre all’inizio pensavo di essere io quella che avrei portato a loro aiuto! Certo un piccolo umile contributo l’avrò portato, ma di sicuro quello che mi han dato loro vince!!

Ora posso solo dire che la prima cosa che farò con lo stipendio sarà mettere da parte abbastanza soldi per poter tornare a Ifakara questa estate! E poter finalmente dire “nimerudi nyumbani!!”: sono tornata a casa!!

Beatrice Santucci

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