Chiara, ostetrica al St Francis Hospital, Ifakara

Se dico Tanzania penso a mille coloratissimi sguardi. Penso al calore della musica e ai canti di preghiera. Alle strade polverose.
Era tanto che Caterina mi parlava di partire per l’Africa. Un giorno mi sono semplicemente detta: ‘Perché no? Andiamo insieme!’  Così, accantonata una routine di vita che in quel preciso periodo vestivamo particolarmente stretta, abbiamo conosciuto Anna e Fabio e subito dopo comprato il biglietto dell’aereo. Neppure un mese dopo eravamo in Tanzania. 
Siamo arrivate di notte nell’affollatissima stazione degli autobus di Dar es Salaam; c’erano pochissime donne e nessun altro bianco. Da qui siamo partite per Ifakara, otto ore di pullman sgangherato, un po’ di paure, tanta stanchezza, tanto stupore …  e mille domande. 
Vedere l’Africa per la prima volta mi ha messo un po’ di inquietudine. Non sapevo che cosa aspettarmi e sentivo che ogni cosa mi coglieva impreparata, regalandomi una terribile voglia di vedere e di capire.
Giunte ad Ifakara siamo state accolte da padre Salutaris, prete della parrocchia che ci ha ospitate, un sorriso grande e una risata singolare. Abbiamo passato insieme a lui le prime sere seduti fuori dalla parrocchia ad imparare il nostro primo rudimentale kiswaili.
Di mattina lavoravamo nella Sala Parto dell’Ospedale St. Francis, dove i colleghi ci hanno accolto calorosamente, con gentilezza e curiosità. Il St. Francis è un ospedale universitario, gestito dai locali e popolato da moltissimi studenti. Ricordo che in sala parto spesso si trovavano anche quindici persone davanti a ciascuna donna in travaglio di parto.. 
Prima di iniziare ogni mattina, prima delle ‘consegne’, c’era sempre un momento di preghiera. 
Non c’era spazio per la fretta, anche in ospedale si andava tutti ‘pole pole’, piano piano, ed anche i travagli erano lenti …  poi d’improvviso ti giravi e la mamma del letto di fianco stava già partorendo il suo bambino, senza il tuo aiuto, spesso senza lamenti. Quando la mamma e il bambino stavano bene non c’era bisogno di nulla, e con il neonato avvolto nel suo kanga la madre si sedeva sul letto a mangiare un po’ di ugali e lui attaccato al suo seno. 
Si percepiva molto chiaramente come il parto fosse un evento della vita e un fatto di donne: i mariti non c’erano, c’erano invece molti medici uomini, e alcuni di questi erano anche preti. Ricordo che la cosa all’inizio mi parve pazzesca, poi ho capito che non c’era nulla di cui stupirsi.
Anche la morte si viveva con altrettanta naturalezza.
Abbiamo avuto la possibilità di vedere i paesini vicini: Kikwawila, Mahenge, Kisawasawa.. Non ho mai bevuto tante bibite gasate in vita mia! ‘Karibuni’ , benvenuto, era una formula che non mancava mai e ci riempiva il cuore tutta questa naturalità nel condividere la propria casa, il proprio pasto.
Di domenica andavamo a messa, era un appuntamento che ci faceva stare bene. Mi piacevano i canti e mi piaceva vedere come la chiesa fosse per loro un luogo sociale, di ritrovo. Ne eravamo incredibilmente affascinate!
Questa esperienza mi ha regalato una quantità innumerevole di dubbi, tanta malinconia e il desiderio di ritornare. Ci sono stati momenti di grande fatica, soprattutto all’inizio, quando l’incontro e scontro con una cultura così diversa dalla nostra mi portava a pormi infinite domande. Poi tutto è diventato un po’ più chiaro, e ho iniziato ad amare la semplicità e l’imprevedibilità delle nostre giornate. 
Credo che l’Africa mi abbia insegnato il tempo del silenzio, la ricchezza di un vivere più lentamente. Ringrazio l’Anna e Fabio per averci offerto la possibilità di andare. E ringrazio la mia insostituibile compagna di viaggio, nonché amica e collega, per aver condiviso così intensamente questa avventura insieme.
Auguro a chiunque partire col desiderio di lasciarsi commuovere …
Arrivederci Tanzania!

Chiara Chiadini

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