Erica, infermiera al St Francis Hospital, Ifakara

Non ero ancora laureata quando ho cercato un modo per partire. Un’amica mi ha consigliato l’associazione Gocce. Subito ho trovato una grande disponibilità: alcune email di confronto, un incontro con Anna per conoscerci e sarei partita, per davvero. 

Prima della partenza tutti mi chiedevano se fossi pronta. Sospiravo, alzavo le spalle:“Vedremo. Lo saprò solo quando sarò là”. 

Quel giorno all’areoporto avevo paura. Tre mesi via di casa, in un posto completamente nuovo in circostanze tutte diverse a dovermi confrontare, da sola, con questo mondo. L’unica certezza (e in realtà non è poco!) Jessica e Francesco, che mi avrebbero accolta all’aeroporto a Dar es Saalam.

All’improvviso c’ero davvero dentro, ero avvolta, da questo mondo nuovo, incredibile e assurdo (come poi l’ho definito nei miei racconti).

KARIBU AFRICA, KARIBU TANZANIA.

La prima vera impressione di quest’Africa me la sono fatta nel viaggio verso Ifakara: lungo viaggio in bus su strade spesso sterrate e dissestate. Il caldo, la polvere, la ressa delle persone, i sorpassi del bus decisamente azzardati. I paesaggi che si alternavano dal finestrino, lasciandomi intravedere le perone, nella loro vita, nei loro colori.

Poi la mia cameretta azzurra in parrocchia, modesta ma con tutto ciò di cui avevo bisogno.

Poi l’ospedale. Accolta a braccia aperte e avvolta anche qui da mille contraddizioni. Stupendomi di quanto riescano a fare con così poco materiale e strumenti a disposizione ma anche capendo quanto ancora potrebbero fare con poco sforzo e solo con un po’ di buona volontà che a volte manca. Cambiando spesso di reparto dopo poco tutti mi conoscevano. Ed era una gran soddisfazione sentire come tutti mi salutassero:”Mambo Erica?” mentre io, facevo una gran difficoltà ad associare e ricordare volti e nomi. Ero assolutamente impreparata ad uno swahili così indispensabile e presente, ma presto ho imparato almeno i saluti -che aprono a tutta la disponibilità- mentre per tutto il resto c’era l’inglese…e se poi proprio non ci capivamo una bella risata risolveva qualsiasi imbarazzo!

Quando tornavo a casa dall’ospedale i pomeriggi erano sempre pieni di attività: le gite in bicicletta al fiume Kilombero, un salto da Jessica nella sua casa piena di persone (che poi non erano più solo persone ma amici!), i bambini della parrocchia che sempre venivano a bussare alla mia porta per giocare, gli altri studenti volontari internazionali con cui era bello scambiarsi opinioni e sensazioni.

Per la prima volta nella mia vita ho dato importanza al colore della mia pelle, e per la prima volta mi sono sentita ‘diversa’ e sempre al centro dell’attenzione; mi sono così abituata alle voci per strada che non si stancavano mai di urlare ‘mzungu, mzungu’ ovvero bianco, straniero.

Con il tempo qualcosa ho imparato, qualcosa ho capito, a qualcosa mi sono abituata. Molto lo ho portato a casa, tanto lo ho dovuto lasciare con mille interrogativi.

E ho avuto la risposta per chi mi chiedeva prima di partire se fossi pronta. No, non lo ero. Ma credo che nessuno lo possa essere per davvero. L’unico modo è buttarsi e provare, perchè è un insieme, un mondo, un tutto che non si riesce a capire, spiegare o raccontare, l’unica è viverlo.

Quindi prendete tutto il vostro coraggio e buttatevi. A volte potrà essere difficile, ma poi quello che rimarrà sarà un’ esperienza indimenticabile. 

Erica Leonardelli

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