Gocce in Tanzania, il viaggio nel 2016

Siamo stati in Tanzania dal 9 al 29 aprile. Per i primi 10 giorni, fino a martedì 19, eravamo in cinque soci: Anna, Oreste, Monica, Vittorio, io, Marta.  Poi, fino a domenica 24,  siamo rimasti in tre: Anna, Oreste, io, Marta. Infine,  fino al 28 siamo rimasti solo Anna e io, Marta. Sempre, per tutto il periodo, accompagnati dal nostro socio “africano” Francesco, che è stato per noi l’insostituibile interprete, parlando Swahili perfettamente. 

Prima di raccontare giorno per giorno la nostra esperienza, vogliamo dare un piccolo assaggio di ciò che abbiamo visto, dell’impatto che la Tanzania ha avuto nei nostri occhi, nei nostri pensieri, nelle nostre emozioni. 

Ci siamo trovati in Tanzania nella stagione delle piogge e, quasi ogni giorno,  precipitavano dal cielo scrosci d’acqua seguiti da un sole caldissimo e poi ancora scrosci d’acqua, e ancora sole caldissimo con luce limpida e accecante. Abbiamo visto tramonti con il cielo scuro e gonfio di pioggia, ma anche cieli rosso fuoco dopo il tramonto del sole. Abbiamo avuto notti piene di pioggia, rare notti con il cielo stellato e la luna che, mentre eravamo lì, è diventata piena e si è mostrata con  la “faccia” adagiata su un lato (sì, perché, come tutti sanno, nell’emisfero sud del pianeta il cielo si presenta diverso).

La natura è imponente, la stagione delle piogge contribuisce al suo trionfo: alberi alti decine di metri rigogliosi e verdissimi, erba che supera le nostre teste, banani, palme da cocco che svettano maestose, strade e campi allagati, molti con le colture di riso. Le tante strade sterrate che abbiamo percorso con la jeep sono poltiglia di fango,  fiumi  d’acqua che si perdono nel verde, senza confini.  Non sono strade adatte per i veicoli a motore, ma gli autisti potrebbero gareggiare con dei piloti provetti tanto sono bravi a driblare ostacoli, buche profonde, laghi d’acqua.

una strada durante il nostro viaggio

Bimbi e adulti camminano con l’acqua a mezza gamba per giocare, lavare, coltivare. Spesso però l’acqua è tracimata dal fiume che per tutta la pioggia è straripato e, in mezzo ai pesci che i bimbi provano a pescare con canne rudimentali e che gli adulti, a bagno fino alla cintura, provano pescare con grandi reti quadrate, ci possono essere i coccodrilli. Il nostro Francesco, che vive in Tanzania ormai da quasi dieci anni, ci dice che le persone sanno dove sono i coccodrilli per cui non corrono pericoli, anche se, ovviamente, possono sbagliarsi e negli ospedali, ci diceva Jessica – una infermiera ferrista che è stata una nostra volontaria al St. Francis Hospital di Ifakara – spesso  ci sono bimbi e adulti con importanti ferite provocate dai coccodrilli. 

Fuori dai villaggi le abitazioni sono in stragrande maggioranza capanne di fango con rami intrecciati a sostegno e tetti di paglia. Nei villaggi ci sono anche casupole di mattoni e baracche con tetti di lamiera. Così anche nella “città” (in realtà un grande villaggio) di Ifakara, la nostra base.  Tutto è un po’ precario, anche nella pulizia, e arrangiato. 

Con ogni tempo, sempre, lungo le strade, persone a piedi (in maggioranza), in bicicletta, in moto, molti bimbi con la divisa che tornano o che vanno a scuola. Molte persone, bimbi e adulti, sempre, con ogni tempo, fuori, davanti a miseri negozietti nei villaggi o nella città di Ifakara, nei mercati, davanti alle loro capanne isolate nel bush, per le strade. 

Dalle capanne, lungo le strade sterrate che abbiamo percorso, abbiamo visto spesso il fumo uscire da tutto il perimetro del tetto di paglia, segno che all’interno si stava cuocendo da mangiare. 

Le donne, in stragrande maggioranza nel continente (non in Zanzibar dove siamo stati gli ultimi tre giorni), sono vestite con semplici kanga o con vestiti  confezionati da kanga o kitenge, tutti belli, colorati, stretti ai fianchi. Sono donne che esprimono grande vitalità e anche sensualità. Molte camminano con il figlio o la figlia sulla schiena, avvolti in un kanga. I bimbi, se non indossano la divisa della scuola (che ha quasi sempre camicie bianche, candide, che non si capisce come possano esserlo vista la precarietà in cui tutti vivono), spesso hanno vestiti laceri, ciabatte o piedi scalzi.  Gli uomini sono vestiti con pantaloni, quasi sempre lunghi, camiciole o magliette, nei villaggi sono spesso laceri, quasi tutti con le ciabatte ai piedi, a volte scalzi. Nei centri abitati, sempre, abbiamo visto sarti  alla macchina da cucire sul bordo della strada. 

Siamo qui per contribuire a sistemare i materiali che abbiamo inviato nelle diverse strutture sanitarie e sociali,  per contribuire alla realizzazione dei diversi progetti che abbiamo in corso sia nel campo della sanità e del sociale, sia nel campo dell’agricoltura e dell’allevamento, per portare il denaro per le esigenze delle diverse strutture e per il sostegno e le adozioni a distanza di bimbe/i e ragazze/i. 

Francesco è stato sempre con noi. A Ifakara c’è  anche Duurt Huismann, il quale,  dopo essere stato volontario al Saint Francis Hospital mandato da Gocce, insegna ora alla scuola per infermieri di Ifakara, gestita da Solidarmed (una grossa associazione svizzera che opera al Saint Francis – occupandosi della ricerca su malaria e Aids e della formazione di infermieri – e in altre realtà sanitarie della Tanzania). 

Venendo qui, in queste zone dove non arriva il turismo ma arrivano solo volontari, si percepisce la presenza  del Governo della Tanzania che garantisce scuole pubbliche, medici e infermieri nei dispensari, che gestisce, per quello che abbiamo visto noi (ma ci saranno anche altre realtà), l’ospedale Saint Francis di Ifakara insieme alla Chiesa Cattolica, e l’Ospedale di Lugala assieme alla Chiesa Luterana.  E si vede  molto la presenza delle Chiese cristiane, Cattolica soprattutto, ma anche Protestanti, non solo con i luoghi di culto e di ritrovo e la gestione congiunta di ospedali, ma anche con scuole (molte, anche secondarie), orfanatrofi, lebbrosari, centri per disabili.

Ed ecco il nostro diario di viaggio.

Da Bologna a Ifakara 9 -10 aprile 2016

Siamo arrivati a Ifakara dopo due giorni interi di viaggio. Partiti da Bologna il 9, la mattina prestissimo (era ancora buio), siamo atterrati prima ad Amsterdam, poi, con un altro aereo siamo arrivati in Tanzania, con una prima tappa al Kilimangiaro (per scaricare e caricare turisti che vanno nei parchi), arrivati infine a  Dar Es Salaam alle  22 del 9 (le 21 in Italia).  Il giorno dopo, una jeep ci ha portato – in dieci ore di viaggio – a Ifakara, città a 400 km circa a sud di Dar Es Salaam.

Il viaggio è stato lungo e faticoso, ma ci siamo persi a guardare la natura, meravigliosa, le persone che camminavano ai bordi della strada, i masai con le loro mandrie di mucche. Avvicinandoci a Morogoro (grande centro a metà strada tra Dar e Ifakara) iniziano le colline e le montagne in lontananza. Intorno ci sono  il bush, piccoli boschi, tanti villaggi con casupole con il tetto di lamiera e poche capanne di fango fino a Morogoro. Tanti mucchi di mattoni, terra rossa o grigia compattata e lasciata essiccare al sole. Molti sacchi di carbone ai lati della strada in vendita. Tanto verde.  Tempo incerto: pioggia, poi sole, poi pioggia, poi sole. Caldo comunque. E umido.

Dopo Morogoro si attraversa il parco nazionale Mikumi: dall’auto abbiamo visto zebre, elefanti, giraffe, impala, bufali,… mai così tanti, forse è per la stagione delle piogge. 

Le capanne isolate, dopo Morogoro, sono quasi tutte di fango e paglia.

Gli ultimi 80 km sono di strada sterrata, un piacere per la schiena. Su un lato la montagna con la foresta, la giungla, dichiarata per tutti gli 80 km parco nazionale “Udzungwa National Park”, dall’altro lato capanne isolate di fango e paglia, villaggi. E infine Ifakara, la nostra base. 

13 aprile 2016 Ifakara

Dormiamo al convento dei Capuccini. La prima sveglia è  al canto dei galli quando è ancora buio, tra le 4 e le 5. Poi si dorme ancora un po’ e il secondo risveglio è al canto melodioso dei frati che iniziano le loro preghiere alle sei nella cappella del convento, dove vanno anche le persone che abitano qui in questa zona di Ifakara. Il loro canto è dolce e profondo. E’ anche accompagnato dal canto degli uccelli, tanti. 

Ifakara è una città, ma in realtà non è che un grande villaggio con due strade asfaltate per qualche  kilometro intorno al “centro” che diventano poi sterrate  piene di buche,  qualche casa in muratura di due piani (o vuote e fatiscenti o sede, ad esempio, della Parrocchia di Ifakara, di una scuola internazionale (!) che abbiamo visto nel tratto, ancora asfaltato, che va verso il villaggio di Kikwawila), molte casupole di muratura e baracche con il tetto in lamiera, piccoli baretti o ristorantini  con la “veranda” coperta da un tetto di paglia, qualche capanna di fango e paglia, un grande mercato e tanti piccoli negozietti (baracche o piccole stanze in muratura) che danno sulle strade, a cui si arriva attraversando un fosso su passerelle di legno, e  dove si può comprare di tutto. Nessuna illuminazione (di sera ci si muove con la pila),  banche con anche lo sportello bancomat.  

In questa stagione, tanta acqua e fango, ovunque.

Le prime tre giornate le abbiamo passate al St. Francis Hospital, la più grande e importante struttura sanitaria dell’area, a cui inviamo diversi materiali (letti, arredi, materiali per sala operatoria…). Anna, la presidente di Gocce, sempre accompagnata da Francesco e a volte anche da me, ha incontrato le diverse persone con cui siamo in relazione, a partire dal direttore del Saint Francis,  Dr. Fr. Winfried Gingo.
I maschi (Oreste, Vittorio, Francesco) si sono occupati della sistemazione di letti di degenza, coordinati dalla ingegnere del St. Francis. Noi “ragazze” (Anna, Monica ed io) ci siamo occupate dei paraventi per la privacy dei pazienti: il Patron (il responsabile infermieristico) ci ha mostrato quali avevano bisogno (tanto) di una sistemata, ci ha indicato anche i carrelli per la biancheria sporca (che avevano una catinella di plastica crepata al posto di un sacco). Mentre gli uomini lavoravano ai letti, noi siamo andate a comprare la vernice per le strutture dei paraventi e per i carrelli,  la stoffa per i pannelli  e per i sacchi da biancheria sporca, abbiamo portato la stoffa  da un sarto per la confezione (ci ha messo 5 giorni invece di due), poi, nel workshop (l’officina dell’ospedale) abbiamo verniciato (con la collaborazione di un operaio del Saint Francis), attaccato i pannelli e i sacchi confezionati annodando stringhe. Abbiamo rimesso a nuovo 8 pannelli e tre carrelli per la biancheria sporca. Un giorno, mentre aspettavamo che il sarto finisse di confezionare pannelli, sedute in una panca di fronte alla macchina da cucire, una bimba si è messa a giocare con me: buttava in aria, come fosse una palla, un sacchetto di plastica che con l’aria si gonfiava.  

La baracca del sarto è situata in una fila di analoghe baracche sbilenche (tutti “negozietti” che vendono frutta, verdura, stoffe..) nella strada, sterrata, che porta all’ospedale. 

Abbiamo portato nei reparti anche  tre paraventi nuovi, comprati, con il denaro di Gocce (130 euro l’uno), da Duurt  a Dar Es Salaam.

Una sera, nel convento dei Capuccini, dopo cena  e dopo la loro ultima preghiera, abbiamo fatto una “lezione” di italiano ad alcuni frati e ragazzi novizi. Abbiamo raccontato l’avventura della sistemazione dei paraventi e dei letti al St. Francis.

I frati sono veramente delle belle persone, gentili, umili, sempre sorridenti e accoglienti. 

Certo, stare nel convento è come stare in un’isola rispetto a quello che c’è fuori. Lì, una sera, è venuto a cenare e a parlare con noi  il vescovo  Salutaris Libena, che guida da Diocesi di Ifakara, da cui dipendono molte delle strutture con cui operiamo, compreso il Saint Francis Hospital che la Diocesi gestisce insieme al Governo della Tanzania.  Libena è relativamente giovane, sorridente, gentile e disponibile.  

14 aprile 2016  Ifakara e Mbingu

Abbiamo mantenuto la nostra stanza al convento, ma, dopo i primi tre giorni di lavoro al Saint Francis, abbiamo iniziato i nostri viaggi per recarci nelle altre strutture dove operiamo. Oggi è la volta di  Mbingu dove le suore, aiutate da donne del villaggio, gestiscono un orfanatrofio per bimbi fino ai 6 anni (a questa età, se possibile, i bimbi vengono rimandati dalla famiglia, da qualche parente che può occuparsene).

La strada per arrivarci è sterrata e piena di buche. Mbingu è a 50 km da Ifakara, ci abbiamo messo più di 3 ore.  E’ piovuto e piove tanto. Anche la campagna intorno è piena di acqua, Tante le coltivazioni di riso e banane. I fiumi sono straripati e abbiamo visto contadini nei campi di riso con l’acqua alle cosce. 

Suor Anatholia, la responsabile dell’orfanotrofio, è una bella donna, energica e sorridente. La conosciamo da anni e l’accoglienza sua e dei bimbi è stata emozionante. Abbiamo portato vestiti (confezionati da signore di Firenze), piccoli regali, denaro per il sostegno dei bimbi. Quest’anno abbiamo aggiunto anche il denaro per due sorelline masai  di 8 anni che non dovrebbero essere più qui ma hanno solo la nonna che non può occuparsene  e così suor Anatholia le tiene nell’orfanatrofio e le manda a scuola. 

Oreste e Vittorio  hanno sistemato qualche letto (portiamo sempre con noi la cassetta degli attrezzi che ogni anno viene lasciata qui per essere poi pronta l’anno successivo). 

Abbiamo anche fatto una interessantissima e avventurosa gita nel bush, proposta da suor Anatholia, per visitare un villaggio sperduto. 

In un carretto, trainato da un grande trattore, siamo partiti. La strada, una cavedagna, e’ piena di buche piene d’acqua,  ai lati qualche capanna isolata, banane, alberi di cacao (sono bassi e con i frutti attaccati al tronco e ai rami),  mango, teak. Arrivati all’ultimo avamposto dove vivono due suore con una famiglia, il trattore si è fermato, chi voleva, doveva proseguire a piedi: la stradina era impraticabile per il trattore.  La bimba piccola che era lì con la mamma, vedendoci si è messa a piangere: siamo “mzungu”, bianchi, e forse per questo l’abbiamo spaventata. 

Siamo partiti a piedi, dopo un po’, siamo stati  costretti a camminare nell’acqua fino alle ginocchia, la strada sterrata è diventata un fiume. Si scivola, si ride anche. Vediamo ragazzi che spingono la loro bicicletta con una pila enorme di banane, in mezzo all’acqua. Abbiamo perfino visto un ragazzo con la moto, che altri hanno aiutato ad attraversare il pezzo di strada dove l’acqua arrivava e superava le ginocchia.

Siamo arrivati al villaggio: tutto allagato, tutte capanne, bimbi e adulti, alcuni con la bicicletta, in mezzo all’acqua. In una baracca in muratura con il tetto di paglia abbiamo visto l’insegna del telefono. Non siamo potuti andare al centro del villaggio perché era tardi, ci hanno detto che c’è la scuola. 

Abbiamo fatto appena in tempo a rientrare all’orfanatrofio che si è scatenato un acquazzone pazzesco. Poi, sempre con la jeep, siamo tornati a Ifakara.

15 aprile 2014 Mahenge

Siamo partiti da Ifakara con la jeep il mattino presto, sapevamo che ci aspettava un viaggio tormentato. Sono 80 i km da Ifakara a Mahenge (che è in montagna). Ci abbiamo messo 6 ore. Poco fuori da Ifakara si incontra il fiume Kilombero. E’ molto grande, ora tracimato nella campagna intorno. Non c’è ancora il ponte, così si attraversa con un  traghetto che trasporta persone e veicoli. Ai due lati, pescatori, donne che lavano i panni, mucche. Nel fiume, ci dicono, ci sono coccodrilli e ippopotami. E’ pericoloso immergersi.

La strada, sterrata, con la pioggia è diventata un pantano, tutta piena di buche e piccoli e grandi acquitrini. In due punti, in salita, in mezzo al fango rosso che arrivava a mezza gamba (la terra in questa area della Tanzania è tutta rossa e bellissima), abbiamo visto due macchine ferme, impantanate. Diversi uomini aspettavano per spingere e  guadagnare qualche scellino. Mahenge è in montagna e per arrivarci abbiamo attraversato diversi punti dove si vedeva solo foresta, giungla, meravigliosa. Diverse le scimmie ai lati della strada che, negli ultimi 10 km, è asfaltata. In alcuni punti, gli abitanti hanno strappato la terra alla giungla e hanno fatto piantagioni di teak. Ora gli alberi, non grandi perché vengono tagliati abbastanza giovani per vendere il legno, sono pieni di fiori color panna e grandi e larghe foglie (che in un qualche punto lungo la strada abbiamo visto che servivano a bimbi per ripararsi dalla pioggia).  Vicino a Mahenge abbiamo visto il rimorchio di un camion  e il trattore che trasportava caduti lungo il pendio della montagna.

Mahenge è un grande villaggio, ha una banca, è meno “arrangiato” dei villaggi in pianura, tutto è abbastanza pulito. La sede del Vescovo, la Chiesa, la Scuola superiore per ragazze, il convento dei Capuccini sono belle costruzioni, ben tenute, con grandi prati e giardini. Le costruzioni più vecchie, quelle fatte dai Capuccini quando arrivarono in Tanzania, hanno il tetto con le tegole,  le più recenti hanno il tetto di lamiera, come tutto.

C’era fresco, abbiamo dormito nel convento dei Capuccini con anche la coperta. Appena arrivati, siamo stati a trovare il Vescovo Agapiti Ndorobo, che ci aveva aspettato per mangiare assieme avendo fatto preparare un buonissimo pranzetto a base di riso, carne di pollo, verdura, banane. Agapiti ha un bel volto, una espressione da buono, molto gentile. Ci ha offerto pranzo, cena e alloggio nel convento dei Capuccini. La Diocesi di Mahenge è molto vasta, fino a qualche anno fa comprendeva anche Ifakara poi, su richiesta proprio di Agapiti, Ifakara è stata definita  una Diocesi a sé, e il Vescovo Libena è stato chiamato a guidarla. 

Dopo aver parlato dei diversi progetti che abbiamo qui  (sostegno all’orfanatrofio, contributi in denaro per la costruzione di un ospedale), Agapiti ci ha raccontato che nella giungla che abbiamo attraversato venendo qui vivono diverse famiglie, isolate nelle loro capanne, probabilmente coltivando un po’ di mais, banane.. Ci ha detto che lì nascono, e che lì vivono e muoiono.

Siamo poi stati nelle strutture dove abbiamo progetti:  all’orfanotrofio dove abbiamo portato  denaro per il sostentamento dei bimbi, vestiti (sempre confezionati dalle signore di Firenze), piccoli regali;  alle scuole  superiori per ragazze St Agnes e Regina Mundi dove sosteniamo la frequenza di sei ragazze.  Siamo stati anche a vedere lo stato di avanzamento della costruzione dell’ospedale, a cui anche Gocce contribuisce con donazioni in denaro e invio di materiali.

Ci siamo fermati solo una notte e il mattino, dopo aver salutato il Vescovo Agapiti, siamo tornati a Ifakara. La strada al ritorno, se possibile, era ancora più disastrata. In uno dei due punti critici visti all’andata c’era un autobus fermo, impantanato. Il nostro autista, Alfred, ha fatto un giro strano, in una specie di viottolo, ed è tornato a prenderci superando il pullman con le ruote sepolte nel fango.

17 aprile Kikwawila

Kikwawila è a 15 km da Ifakara: strada sterrata, dopo qualche kilometro dal centro della città. Siamo ospitati in un convento di suore francescane indiane, guidato da Sister Deepthy, con cui lavoriamo da diversi anni avendo già contribuito alla realizzazione e messa in funzione di un dispensario, di una casa per il medico e l’infermiere, e a cui continuiamo a contribuire con denaro.

Ora siamo dedicati soprattutto al vicino orfanatrofio che accoglie 25  tra ragazzi e bambini,gestito da un prete indiano di una congregazione mai sentita nominare “”Haralds of good news”,  solo, in questo periodo (e per molti periodi all’anno) aiutato da   una volontaria filippina, Maria. 

Al convento tutto è pulito e in ordine. Le suore sono gentilissime. Deepthy la conosciamo da anni ed è per noi un punto di riferimento fondamentale, per tutto. Il cibo è molto buono. Anche questa è un’isola rispetto a ciò che c’è intorno. Un pomeriggio di uno  dei tre giorni che abbiamo passato qui, siamo andati al villaggio Kikwawila, a poche centinaia di metri dal convento: un villaggio molto, molto, molto povero, forse il più povero che abbiamo visto, a parte la particolarità di quello allagato in mezzo al bush.  Davanti a una tv, sotto una tettoia di paglia, molti uomini guardavano una partita. Poco più avanti, altre capanne,  qualche pezzo di casa in muratura, qualche negozietto (piccole stanze con i muri sporchi o rotti, qualche scaffalatura sbilenca). Un “bar” sotto  una tettoia di frasche con un diffusore di musica, panche, sostegni fatti con rami, tutto arrangiato. Molti uomini con vestiti laceri, anche bimbi, molti scalzi. Le donne meno arrangiate, con vestiti africani in grandissima maggioranza.

Appena arrivati al convento di Kikwawila, depositati i nostri “bagagli”, abbiamo fatto una breve ricognizione all’orfanatrofio per vedere lo stato di avanzamento dei lavori di costruzione di una stalla (che stiamo co-finanziando) e dove vorremmo contribuire a realizzare un orto perché sappiamo che i bimbi e i ragazzi non mangiano verdura,  poi di nuovo siamo tornati a Ifakara per comprare materiali che ci servivano: stivali, vanghe, ferro, cemento. I semi li abbiamo portati da Bologna.

Dopo l’acquisto, di nuovo in jeep, sempre sotto un diluvio, e ritorno a  Kikwawila dove abbiamo lavorato due giorni. I maschi, insieme a operai tanzaniani, hanno contribuito a scavare e a costruire i pozzetti per i liquami della stalla (dove dovrà essere rifatto il pavimento perché la pendenza per i liquami è stata fatta al contrario (cioè dove le mucche mangeranno), noi ragazze, con alcuni ragazzi dell’orfanatrofio (qui restano anche da grandicelli) ci siamo impegnate nella realizzazione dell’orto. In questi tre giorni  non è piovuto e abbiamo lavorato sotto il sole, riposandoci nelle ore più calde e andando ogni tanto all’ombra degli alberi intorno.

19 aprile  2016 Ifakara

Una giornata relativamente riposante, anche se solo a camminare, quando c’è il sole, si suda. Abbiamo preso le biciclette e siamo andati al Centro Betlehem, gestito da suore francescane, dove sono ospitati oltre 100 ragazze e ragazzi disabili. Il Centro è un’oasi di pace: costruzioni in mattoni, grandi prati, grandi alberi che offrono la loro ombra. Le ragazze e i ragazzi stanno bene qui. Sono seguiti. Abbiamo portato denaro e siamo stati con loro un’oretta. Abbiamo rivisto Abu, un ragazzino spastico che seguiamo da tempo, fin da quando era all’orfanotrofio di Kikwawila. 

Nel pomeriggio siamo tornati al Sait Francis Hospital  per finire di sistemare letti e paraventi. Abbiamo finito il lavoro e, tra le cose da buttare nel cortile del workshop, abbiamo recuperato una carrozzina che aveva semplicemente le ruote sgonfie e cinque sostegni per flebo perfetti e abbiamo riportato il tutto al Patron: erano materiali mandati da noi e per questo sapevamo che erano a posto (sistemiamo tutto quello che mandiamo prima dell’imballaggio).

20-21 aprile Iragua, Lugala

Siamo partiti il mattino presto, Anna, Oreste, Francesco e io, con la jeep dell’associazione svizzera Solidarmed, che finanzia l’ospedale di Lugala.  Con noi due giovani ragazzi svizzeri che, mi hanno poi detto, stanno facendo servizio civile in Tanzania. 

La strada, fino a un bivio a circa 50-60 km da Ifakara, è la stessa che si percorre per  andare a Mahenge. Se possibile, è peggio  dell’altro giorno. Abbiamo visto un camion fermo, un trattore ribaltato,  fango, fango, fango e uomini pronti ad aiutare a spingere, bambini che guardavano. Anche dopo il bivio per Iragua e Lugala, in alcuni tratti c’è giungla su entrambi i lati della strada. Molti tratti sono stati disboscati per fare posto a piantagioni di teak. 
La prima tappa è a Iragua da padre Octavian. Qui stiamo contribuendo a restaurare la sede di un vecchio dispensario per farne l’alloggio del medico e dell’infermiere che ora dormono in una situazione a dir poco fatiscente. Un’altra associazione ha contribuito a costruire il nuovo dispensario. Iragua è apparso un posto molto triste, forse perché pioveva e il cielo era scuro. Alcuni bambini, fuori dalla canonica, giocavano con una palla di stracci.  

Padre Octavian era solo, grande accoglienza,  ma situazione pesante, sporco e puzza. Abbiamo accettato l’invito a mangiare qualcosa: padre Octavian ci ha offerto un ottimo pollo e ottime patatine fritte, credo il più buon pollo e le più buone patatine che abbiamo mai mangiato. E poi, ovviamente, banane. In questa stagione non ci sono manghi né ananas, purtroppo. Il medico ci ha raggiunto e  ci ha guidato in visita al dispensario, dove c’erano poche donne in attesa, e al vecchio edificio che stiamo restaurando.  Abbiamo portato denaro per continuare i lavori di restauro.

Siamo poi arrivati  a Lugala dove c’è un ospedale di proprietà  della Chiesa Luterana e del Governo della Tanzania, molto ben tenuto, finanziato da Solidarmed. Gocce, con l’ultimo container, ha inviato diversi arredi e materiali, tra i quali un generatore e un ecografo.  Siamo stati accolti dal direttore, un medico, Peter Hellmold, molto espansivo nella relazione. Abbiamo cenato in una baracca fuori dall’area dell’ospedale con un po’ di pollo, riso,  birre calde. L’ospitalità in una guesthouse ai margini dell’area dell’ospedale ci è stata offerta da Hellmold. 

Il mattino prima della partenza abbiamo visto una scimmia che si lanciava da una baracca a un albero. La notte che abbiamo passato lì è stata abbastanza pesante: migliaia di rane non hanno smesso un istante di gracidare, c’era umido e caldo, niente luce elettrica dalle 22 fino al mattino e dunque telefonini scarichi.

Il viaggio di ritorno a Ifakara è stato sempre problematico, anche se per molti tratti abbiamo avuto il sole o almeno non la pioggia.

22  aprile Ifakara

Oggi giornata di riposo, domani mattina presto si parte per Dar Es Salaam, poi Oreste andrà all’aeroporto per il ritorno in Italia, Anna, Francesco e io andremo, il mattino successivo, a Zanzibar dove dobbiamo parlare con il responsabile di un ospedale e dove pensiamo di fare due giorni di mare, in quello splendido oceano che si ritira per km con le basse maree, con spiagge di sabbia bianchissima, ricchi resort per turisti e casupole poverissime per gli abitanti. 
Siamo stati al fiume Kilombero (dove il traghetto porta da un lato all’altro persone e veicoli) in bicicletta. Abbiamo visto tanti bimbi che pescavano: il fiume è straripato e i campi sono allagati. Abbiamo visto anche uomini a mollo con reti trapezoidali che lasciavano sul fondo e poi ritiravano su. Bella gita, spensierata, pur se il cielo si è subito gonfiato di pioggia. 

Al convento abbiamo organizzato una cena di arrivederci. Già qualche sera fa avevamo fatto la pizza (senza formaggio) ed era piaciuta tanto. Abbiamo fatto sfoglie di pasta (20 uova) e crescentine. Duurt, Elisabetta (una ostetrica che è stata al Saint Francis come volontaria mandata da Gocce  per tre mesi e che ora ha accettato un contratto di lavoro per due anni), e Chiara (una ostetrica volontaria mandata da Gocce che sta finendo i suoi tre mesi al Saint Francis),  hanno comprato la carne macinata, noi abbiamo comprato pomodori freschi e concentrato e abbiamo fatto il ragu’.  I frati ci hanno tanto ringraziato e noi abbiamo ringraziato loro: siamo stati bene qui, accolti con fratellanza,  tanta disponibilità e nessun giudizio.

24 aprile Dar Es Salaam

Il viaggio da Ifakara a Dar Es Salaam, sempre con la jeep del vescovo Libena,  è stato un’avventura. I primi 80 km sono di sterrata, buche profonde, pantano, ma questa volta c’è anche un ponte crollato, per cui non c’è  possibilità di passare. L’autista ha fatto una deviazione e abbiamo letteralmente guadato il fiume in un punto non molto profondo. Abbiamo rivisto la giungla e anche, in lontananza, una grande cascata: un paesaggio da libro di Kipling.

Siamo arrivati a Dar nel tardo pomeriggio. Oreste, la sera, è partito per l’Italia.

25 – 28 Zanzibar

Siamo arrivati a Zanzibar con un piccolissimo aereo da turismo: dodici passeggeri in una carlinga strettissima con davanti, senza alcuna separazione, il pilota che, prima di partire, si è girato e ci ha dato il benvenuto a bordo. Venti minuti di volo. 

Stone Town, la capitale, è una ex città coloniale. Qui ci sono stati arabi e indiani e si vedono palazzi, case, mura, e i famosi portoni di legno istoriati, bellissimi. Ci sono anche tanta povertà e tante baracche fuori dal “centro”, ma questa è davvero una città, pur se fatiscente in moltissime parti. Le donne sono quasi tutte velate, molte con il velo integrale: a Zanzibar il 97% della popolazione è di fede islamica.  Ci sono anche tanti che chiedono soldi o che offrono cose da vendere. Disabituati al turismo, abbiamo fatto un po’ fatica. Ma presto Francesco ci ha portato in un posto meraviglioso: vicino a Paje, ai margini di un villaggio che si chiama Kizimkazi, ci ha prenotato due stanze in un lodge sperduto, nuovo e pulito, che dà direttamente sul mare: dalla finestra della nostra camera potevamo vederlo e “sentirlo”. Ci siamo arrivati verso il tardo pomeriggio, abbiamo ammirato un tramonto meraviglioso con la palla del sole  che si è buttato nell’oceano, visibile fino all’ultimo spicchio. Abbiamo cenato e ci siamo goduti il cielo: tantissime stelle, la via Lattea visibilissima, e poi la luna, sorta tardi.

Anche qui ci si sveglia presto, al canto degli uccelli o allo scroscio della pioggia: dopo il primo giorno, è piovuto sempre, a parte qualche ora con nuvole scure e basse.

Il 26 mattina, con tempo incerto, abbiamo deciso di andare nel parco nazionale che c’è qui a Unguja (così si chiama l’isola principale di Zanzibar, arcipelago costituito da Unguja e Pemba). Il parco pare sia esteso per 50 km, ma ai turisti ne fanno vedere un pezzetto, a noi è parsa una presa in giro: ne avremo percorso sì e no 1 km. La guida ci ha portato prima  nel bosco di mogano facendoci percorrere un grande sentiero per qualche centinaio di metri, “non si poteva proseguire oltre per l’acqua che inondava il sentiero”,  poi, in macchina, siamo andati dall’altro lato della strada e, a piedi, lungo un altro sentiero, ci ha fatto vedere un tipo di scimmia rossa che vive solo qui (così ci ha detto), infine ci ha accompagnato in una camminata lungo  una passerella di legno tra le mangrovie. Fine.

Nella tarda mattinata  siamo tornati in luoghi che avevamo già visto in anni scorsi, nei pressi di Michamwi e  a Jambiani. Abbiamo fatto una passeggiata sulla sabbia fine e bianca con il mare lontano, lontano: c’è una lunghissima bassa marea e si vede, quasi all’orizzonte, il mare, una lunga striscia bianca che si infrange sulla barriera corallina (dove, in un altro viaggio, siamo stati e abbiamo nuotato assieme ai delfini). Ma presto è venuto a piovere, una pioggia battente, e dunque ci siamo ritirati nel nostro lodge. 

Il 28 siamo andati all’ospedale Inspire Zanzibar, nel villaggio Makunduchi,  che ci ha chiesto di contribuire alla formazione di una infermiera. Abbiamo parlato con la responsabile infermieristica. L’ospedale è ben tenuto, finanziato da un’associazione inglese. Ne parleremo al ritorno in assemblea e decideremo come contribuire.

Il tempo è rimasto sempre brutto, nuvole e pioggia, tanta. La notte si è sentito il battere della pioggia e l’ululare del vento. Davvero. Abbiamo visto un baobab gigantesco, il più grande mai visto, maestoso. Noi, ai suoi piedi, sembravamo delle formiche. 

Grande paura per il rientro a Dar con quel piccolo aereo sotto una pioggia battente. Ci hanno accompagnato al volo con gli ombrelli e poi siamo partiti: meno pauroso del previsto e in 20 minuti ci siamo trovati di nuovo a terra, a Dar, dove abbiamo trovato sempre pioggia e strade allagate. 

A Ifakara, a Zanzibar e a Dar abbiamo comprato diverse stoffe, braccialetti, cucchiai, altri piccoli oggetti, insomma materiali da vendere al mercatino che faremo anche alla festa “958, una goccia per volta”, che  quest’anno è  a Villa Angeletti il 25 e il 26 giugno prossimi.

(Marta)

al lavoro al St Francis Hospital, Ifakara

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